sabato 16 gennaio 2016

Il ritorno alla terra come (unica) via alla sovranità alimentare

La storia della Repubblica italiana è segnata da continue rinunce alla propria sovranità. Dapprima perse Sovranità territoriale, declinata a beneficio di plotoni a stelle e strisce. Così fu anche per la Sovranità monetaria, ceduta con rimpianto all'Unione Europea. Quindi la rinuncia alla Sovranità militare, con l'esercito italiano che corre in guerra se lo comandano di là dall'oceano. 

Da tempo, invero, l'offensiva antisovranista minaccia pure il comparto alimentare. L'Italia senza cibo pare una barzelletta. Eppure non è dietrologia spiccia profetizzare il Belpaese vittima d'un ricatto alimentare,  come oggi ne subisce di finanziari ed energetici. I dati, quantomeno, paventano scenari torbidi: tra il 1971 ed il 2010 la superficie agricola utilizzata ha perso 5.000.000 di ettari (-28%, fonte ISTAT). Buona parte delle responsabilità va all'urbanizzazione selvaggia, che è risorsa cui gli Enti locali non rinunciano, anche per il malvezzo centralista di privare i comuni d'ogni fonte di sostentamento propria.


Pesa, poi, l'abbandono delle terre. I giovani, soprattutto, preferiscono le mura sorde e grigie d'un ufficio alla vita campestre.  Qualcuno li direbbe choosy, così tacendo le responsabilità della politica. Se, infatti, la resa reddituale del settore primario è drasticamente calata negli anni la colpa è (soprattutto) di politiche antinazionali, che hanno esposto le aziende italiane sul mercato globale senza le adeguate salvaguardie pubbliche. Nostro malgrado, il TTIP promette l'acutizzazione del fenomeno, costringendo l'agroalimentare italiano a competere con le efficientissime monocolture intensive delle multinazionali statunitensi.


Va da sé, la riduzione di suolo agricolo non è gioco a somma zero ma ha gravi ricadute sulla produzione interna di derrate alimentari. Un lusso che l'Italia, seconda solo a Regno Unito e Germania per deficit di suolo, non può concedersi. Il Sustainable Europe Research Institute di Vienna, infatti,  calcola in 61 milioni gli ettari di terreno agricolo necessario a soddisfare il fabbisogno alimentare italiano. Ad oggi, le stime più recenti ne contano 13 milioni. Troppo pochi.


Il risultato netto è un'accentuata dipendenza dall'estero nell'approvvigionamento di materia prima agricola, che è anzitutto problema politico. La perdita di sovranità alimentare confina lo stato italiano in una posizione subalterna sullo scacchiere internazionale, signoreggiato dai paesi produttori. Non mancano, poi, le controindicazioni interne. Che ogni rivoluzione abbia inizio con un popolo che rivendica il sacrosanto diritto al pane è una certezza fondata nella storia. Sicché la sovranità alimentare come controllo politico sull'approvvigionamento di cibo è (anche) garanzia degli equilibri interni. Nulla di nuovo sotto il sole, intendiamoci. Già la ricetta di Roma antica per la pace sociale sollecitava panem et circenses. Pane, prima di tutto. Qui, invece, s'è visto solo il circo. 

lunedì 4 gennaio 2016

Land grabbing: l'Africa divorata dal Capitale

Esiste una legge fisica elementare che associa ad ogni azione una reazione uguale e contraria. Nondimeno, la storia umana obbedisce alla regola medesima. Rebus sic stantibus, lo spostamento di intere regioni in Europa non è casuale. Se l'africano abbandona la terra natia è perché qualcosa se l'accaparra. A volte la guerra, in poche zone la desertificazione, più spesso il Capitale internazionale, testa di ponte di un neo-colonialismo sfrontato.

Il vampirismo liberista affonda il canino nel suolo africano. Land Matrix - piattaforma indipendente che monitora i passaggi di proprietà fondiarie - ha registrato il rinnovato interesse di investitori privati - multinazionali, fondi d'investimento, speculatori ecc. - e Stati stranieri per le vaste aree coltivabili del Terzo Mondo. Dal 2001 ad oggi, la compravendita su larga scala di terreni agricoli ha interessato oltre 38.000.000 di ettari, di cui 17.000.000 nella sola Africa.

Non c'è nulla di spaventosamente criminale nell'acquisto di un terreno. Tant'è che istituti di ricerca e agenzie governative sperano in un picco degli investimenti fondiari, buoni - dicono - per riscattare l'Africa dalle sue umili origini ed avviarla alle magnifiche sorti e progressive della globalizzazione.

Invero, la celebrazione delle potenzialità salvifiche del Capitale presuppone un'umanità che questo raramente esercita. Di rado gli investimenti stranieri nell'agricoltura africana stabiliscono una situazione di soli vincitori, dove l'investitore ricava il suo profitto ed il paese-obiettivo guadagna in termini di occupazione, know-how e infrastrutture. Più frequentemente, la corsa al suolo africano affama ed impoverisce la popolazione autoctona, arrivando finanche ad ostacolare il libero sviluppo dello Stato che svende terra e risorse.

In una recente intervistaHenk Hobbelink (Grain) ha svelato le gravi ripercussioni del land grabbing  sull'occupazione locale: "E' vero, la multinazionale, quando prende possesso del terreno agricolo, porta macchinari, usa nuove tecniche e da occupazione. L'evidenza, però, dimostra che il numero di lavoratori impiegati nella nuova impresa è inferiore all'ammontare delle persone che vivevano e lavoravano sullo stesso terreno prima dell'investimento. Il risultato netto è una perdita di occupazione". Non solo: la nuova occupazione da investimento fondiario conta molti lavoratori stranieri, impiegati dall'investitore nelle mansioni tecnicamente più complesse. I lavoratori locali, viceversa, sono ammassati nella fasce più basse della produzione e retribuiti con salari miseri.

Checché ne dicano i fiancheggiatori del capitalismo assoluto, la distruzione dell'autoproduzione e dell'autoconsumo locale in favore di monoculture su larga scala ha impoverito le popolazioni autoctone, minacciandone la sicurezza alimentare.

D'altrondel'anti-sviluppo economico fa il paio con violazioni altrettanto deplorevoli e gli sfratti forzosi di intere popolazioni sono un esempio in questo senso.

Non esiste una relazione conclamata tra il land grabbing e gli odierni flussi migratori. Ciò nonostante, la forza sovversiva del fenomeno è innegabile e contribuisce a destabilizzare intere regioni distruggendo le economie locali.